venerdì 8 marzo 2013

Non commettere atti impuri (di p. Cornelio Fabro C.S.S.)

p. Cornelio Fabro C.S.S. (1911-1995)

Anche il sesto comandamento è ancorato, come i precedenti, sulla giustizia ch'è il fondamento del vivere umano secondo ragione. In questo comandamento anzi sembra che la giustizia assuma una pienezza di forme ed una intimità spirituale che gli altri comandamenti preparano e sotto altri aspetti suppongono e svolgono; perché è nella pratica della castità cristiana che l'uomo si può volgere con filiale amore a Dio, ottiene una superiore comprensione del prossimo e guarda con dignità a se stesso. Se gli altri comandamenti verso il prossimo attingono una particolare sfera di doveri, il sesto comandamento ricorda forse più di tutti al nostro orgoglio la miseria senza limite di uno spirito ferito che vive dentro un corpo assalito senza posa dalle fiamme della concupiscenza. Su questa ferita profonda e inesplicabile, solo la teologia apre un barlume con il dogma del peccato originale e la chiama, con S. Paolo, il «fomite della concupiscenza». Dio aveva creato l'uomo integro nell'armonia dei sensi e nel pieno possesso del suo spirito, dotato di vita immortale e rivestito di grazia: la veste luminosa e incorruttibile dell'innocenza manteneva Adamo ed Eva in purità verginale sotto lo sguardo di Dio. Ma essi disubbidirono e, fatti ribelli a Dio, sentirono immediatamente in sé la pena della ribellione del senso e corsero al vano riparo delle foglie: vana diventò la vita ch'ebbe fatiche, pianto e morte e il destino delle foglie che il vento rapisce e aggroviglia nel fango. La ferita della concupiscenza non viene tolta neppure col Battesimo che ci dona la grazia: essa rimane nell'anima quasi come il segno di una libertà ch'è mancata all'appuntamento con l'Assoluto. È da questo punto umiliante e doloroso che per la maggior parte degli uomini s'inizia la riflessione sull'esistenza: è dottrina di S. Tommaso che «l'infezione della colpa originale appare specialmente nei movimenti della passione impura, i quali non sono soggetti alla ragione» (Somma Teologica, Ia-IIae, 82, 4 ad 3).

Ecco la prima beffa e il primo schiaffo di Satana, invidioso della bellezza che risplendeva nel primo uomo: la concupiscenza è l'infezione congenita che turba e scuote non solo l'organismo psico-fisico ma l'intero ambito della coscienza con quelle scosse ed oscillazioni paurose che fanno gemere i santi e impazzire i peccatori.

Il secondo schiaffo, e forse il più pericoloso, è quello che l'uomo si dà da se stesso quando si lascia gradualmente avvinghiare dalla seduzione sottile e ostinata, dalle impressioni sensuali, dagli affetti proibiti, dalle compiacenze lascive, dalle immaginazioni torbide che reclamano la soddisfazione dei sensi. Non c'è sentiero della vita che non abbia i suoi lacci, né manifestazione dello spirito – dall'arte alla mistica o piuttosto pseudo-mistica – che non abbiano in agguato il demone meridiano: non c'è età o condizione sociale che dia l'incolumità dal morso di questo serpente.

Il terzo schiaffo proviene dall'ambiente sociale. Gli eccessi delle passioni giovanili, l'infrazione del vincolo coniugale, le stesse degenerazioni più inconfessabili non sono un'invenzione moderna: leggiamo infatti nella Sacra Scrittura che Dio si pentì di aver creato l'uomo, perché la carne aveva corrotto tutte le sue vie (Genesi, VI, 12); perciò scatenò il diluvio e sommerse in una pioggia di zolfo e di fuoco Sodoma e Gomorra. 

Tuttavia vi furono anche nel paganesimo epoche di sani costumi – come ancor oggi li riscontriamo nei popoli più primitivi – e poi anche in mezzo a tanti eccessi, c'erano spiriti diritti che tenevano lo sguardo in alto: S. Agostino loda i filosofi antichi i quali, con rischio della propria vita, sconfessarono le indecenti mitologie volgendo l'animo all'unico vero Dio, padre degli uomini e purissimo spirito (De Civitate Dei, l. II, c. 7). Oggi però quest'aristocrazia dello spirito diventa sempre più rara: gli enormi progressi della tecnica eliminano con le distanze materiali e sociali anche quelle spirituali e per la prima volta nella storia dell'umanità le masse si presentano alla ribalta come fattore decisivo. E dietro la massa, nella folla anonima, ognuno si può nascondere e difficilmente si può liberare. Più dell'opinione pubblica nella cultura e nella politica, bisogna temere l'opinione pubblica nel campo del costume: coscienze che si battono – o dicono di battersi – fino all'ultimo per opposte convinzioni culturali o politiche, seguono poi nella vita privata gli stessi canoni del più sordido edonismo.

È il tessuto più delicato della vita umana che qui è interessata ove lo Stato e la famiglia sono i primi responsabili: non si dica che la prima colpa va attribuita alla stampa, al cinema, alla radio né – quando verrà
anche fra noi – alla televisione. Lo Stato ha il dovere di vigilanza su quanto viene offerto al pubblico e la legge difende il buon costume civico: basta applicarla senza timori e infingimenti. Ma nessuno, è obbligato
a comperare giornali riviste e romanzi, né ad andare al cinema o ad aprire la radio. È inutile quindi imprecare ai tempi: ciascuno è responsabile di quel che porta sulla bilancia.

L'abile impresario, l'opulento produttore conosce il suo pubblico e lo tiene a guinzaglio come un giumento: gli scrocca fior di quattrini e gli ammannisce l'immondo pastone di trame e sequenze perverse che fanno a pugni coi principi più elementari del costume e della dignità cristiana. Ma non ci si può nasconder nel pubblico perché il pubblico nella vita dello spirito non esiste: ci siamo io, tu, c'è ciascuno di noi e ogni genitore è responsabile di quel che vedono, sentono e leggono i propri figli. L'opera del sacerdote e dell'educatore deve necessariamente fallire o ridursi a proteggere poche anime elette, quando fuori della Chiesa farnetica incontrollata la sarabanda dei sensi. Illustri famiglie e interi popoli sono scomparsi e altri sono in procinto di scomparire perché il vizio ha bruciato la linfa vitale. Lo stesso istituto del matrimonio, elevato da Cristo alla dignità di sacramento, sembra non riesca più ad arginare il calcolo del piacere proibito. Gli sposi, non sanno più trovare nel prodigio di un nuovo essere, nel sorriso dei propri bimbi, nel pulsare generoso del proprio sangue rinnovato, la gioia e la ragione principale della propria unione.

In tutta questa ardua e umiliante materia sta eretta la Chiesa con le sue materne esortazioni e l'efficacia dei suoi mezzi di santificazione. La disciplina esteriore va sorretta con l'altezza della vita interiore. La Chiesa perciò ricorda all'uomo di essere stato creato ad immagine di Dio ed elevato mediante il Battesimo alla dignità di figlio adottivo così che, secondo l'insegnamento di S. Paolo, il corpo stesso, diventa il tempio vivo della divinità e l'abitazione del Divino Spirito. Nessuno quindi, sposato o celibe, può abusare del suo corpo o di quello altrui per nessun pretesto e in nessun modo, perché il nostro corpo è elemento della nostra personalità ed è unito nel destino finale di gioia o di tormento con la sorte finale dell'anima. Il cristiano di oggi deve difendere a palmo a palmo la sua fede: deve barricarsi intransigente dietro i capisaldi della fede e smobilitare i sofismi che lo vogliono confondere. Il Cattolicesimo in conformità del Vangelo esalta e raccomanda la castità perfetta, ma benedice anche – come fece Gesù a Cana – il matrimonio perché sia santo anch'esso ed allevi alla Chiesa nel timore di Dio nuovi figli. Ma prima del matrimonio e fuori del matrimonio, nulla a nessuno è consentito in questa materia. Il cristiano però in questa lotta non è solo: ha dalla sua la stessa divina onnipotenza.

Contro gli stimoli della natura corrotta la Chiesa raccomanda l'esercizio della preghiera e la pratica frequente dei Sacramenti: essi sono i contrafforti della difesa spirituale ma soprattutto le fonti di energia soprannaturale per la lotta contro le provocazioni della carne. La preghiera, secondo la pietà cattolica, non deve essere mero convenzionalismo di formule fatte, bigotteria o superstizione, ma fervente e umile implorazione al Padre celeste con la mediazione del suo divin Figlio Cristo Gesù e con l'intercessione della purissima sua Madre, la Vergine Maria. Ma alla preghiera la pietà cattolica unisce come mezzo indispensabile la frequenza dei Sacramenti della Penitenza e dell'Eucarestia che ci rinnovano nell'intimo e ci comunicano il Sangue di Cristo. Nessun mezzo vince l'efficacia di questi Sacramenti che hanno l'arcano potere di sopire la carne e di accendere lo spirito in confidente letizia. Infine, come mezzo di disinfezione spirituale contro i miasmi di una civiltà in putrefazione, la Chiesa propone ai suoi figli il ricordo delle verità immutabili del nostro ultimo destino: la morte, il giudizio, l'inferno e il paradiso. Bisogna essere immensamente fatui ed estremamente perversi per non sentire il brivido dell'incognita di questo traguardo: si può dire che il polso della vita spirituale – nel singolo come in un'epoca – dipende dal modo com'è sentito il ritmo del tempo e l'avvicinarsi della morte: per ognuno di noi essa è lo specchio che ci riflette nell'eternità. Chi pensa davvero alla morte davanti a Dio, non può scherzare con la vita; non può darsi alla carne e tripudiare nel «momento», quando l'eternità e sempre in ascolto. Il timore che oggi gli uomini hanno della morte è di natura panica, animale, non cristiana: si teme la fine del tempo, non ciò che poi attende, – perché non si crede più veramente in Dio, non si pensa alla morte. E la sferza del pensiero della sorella morte e del giudizio di Dio vale la pace più saporosa e la vittoria più gioconda di questa grama esistenza.

Non v'è dubbio che la pratica della castità è fra le cose più ardue e la lotta più generosa non è sempre esente da cadute e ferite ed esige una particolare assistenza divina. Ma il precetto della castità non cambia e si erge di fronte ai secoli come la misura della divina vocazione offerta all'uomo. Eppure – per uno strano paradosso – la suggestione del male può diventare minima e scomparire anche per lungo tempo completamente, quando una grande nobile passione s'impossessa dell'anima; la dedizione assoluta alla propria missione scientifica, religiosa o sociale, un affetto puro e sublime, lo stesso schietto e beninteso orgoglio umano di non voler scomparire come polvere, riescono a ricreare in molte coscienze l'etere puro della vita del Paradiso. Nulla quaggiù vale l'incanto di un'adolescenza intatta e di una virilità casta: l'uomo che così si avvicina a Dio, gusta il sapore recondito delle divine cose e gravita per un dolcissimo peso nella sfera dell'infinita luce ch'egli solo quaggiù ha il dono di comunicare a quanti si travagliano in fondo alla valle. Così il VI Comandamento «non commettere atti impuri», mentre tanto ci umilia nel timore salutare della nostra fragilità, contiene tuttavia la più audace promessa e il tripudio della gioia essenziale che Cristo annunziò sul monte delle beatitudini: «Beati i puri di cuore perché vedranno Iddio».
(1953)

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