mercoledì 4 dicembre 2013

GESTIRE LA PROPRIA COLLERA PER VIVERE MEGLIO (di padre Gilles Jeanguenin)

Gestire la rabbia incontrollata
La collera, che sia esplosiva o soffocata e interiorizzata, è un’emozione che, senz’altro, noi tutti conosciamo. In ogni momento della vita, infatti, corriamo il rischio di «perdere le staffe», cioè il controllo delle pulsioni emotive, quando siamo a contatto con le molte irritazioni e contrarietà che incontriamo nella quotidianità.

A poco a poco la collera s’innesca: all’inizio ribolle come l’acqua in una pentola a pressione; poi, all’improvviso, esplode al minimo pretesto. La collera è spesso una bomba a scoppio ritardato!

Il sentimento della collera nasce in seguito a ferite e aggressioni personali, arrecateci dagli altri o dagli eventi. Non appena ci sentiamo aggrediti, o vittime di qualche ingiustizia, ci ribelliamo e lasciamo esplodere la nostra collera.

Quando lasciamo che la nostra collera si sfoghi, eleviamo barricate per proteggerci e per rassicurarci di fronte a comportamenti minacciosi, aggressivi o ingiusti. Ad esempio, chi è vittima di calunnie si arrabbierà quando verrà a sapere le nefandezze che sono state dette su di lui, e ciò è perfettamente comprensibile! Quella collera, però, una volta espressa, gli fornirà tutte le potenzialità di cui avrà bisogno per difendersi e superare le proprie paure: questa collera, detta positiva, permette di superare l’esperienza traumatizzante e di staccarsi dalla morsa dell’aggressore.

In molte circostanze, però, le offese subite alimentano desideri di vendetta: in questo caso, è la collera negativa a esprimersi. Tale animosità, mescolata all’odio, fa affondare maggiormente il cuore dell’uomo nella propria sofferenza: questa collera esplosiva, che nessuno riesce più a contenere, può, infatti, istigare a commettere atti gravissimi, quali violenze, e persino omicidi.

La collera, che non scoppia senza motivo, sorge nel momento in cui si rompe un equilibrio interiore; quando dobbiamo confrontarci con insoddisfazioni o frustrazioni, o quando ci riteniamo vittime d’ingiustizie. Siccome idealizziamo facilmente quelli che amiamo e veneriamo, capita che questa ammirazione trasformi in profonda delusione, quando costoro non corrispondono più all’idea che ci siamo costruiti di loro. Tale frustrazione, che accresce i nostri risentimenti, è sufficiente a innescare una reazione di collera. Se, tuttavia, lasciamo crescere in noi la collera e non la reprimiamo sul nascere, essa diventerà presto incontenibile, irrefrenabile e devastante nei suoi effetti: rancori, inimicizie, antipatie eccetera.

Nella dinamica di una psicoterapia di gruppo si invitano i pazienti a sentire e a esternare le proprie emozioni, tra cui la collera. Perciò, non è raro trovarsi a rivivere scene violente, in cui i pazienti si mettono a urlare, a piangere, a gesticolare per liberare tutta la rabbia, l’odio e l’angoscia che hanno accumulato in se stessi. Queste tecniche emozionali, condotte da specialisti competenti, dimostrano la loro efficacia nel liberare il paziente da blocchi e frustrazioni.

Se esprimere la propria collera è un passo necessario, almeno all’inizio di un processo di guarigione interiore, invece la collera cronica, quella che rinchiude la persona nel proprio odio, è un impedimento alla guarigione.

Cercare la giustizia per se stessi è diritto di tutti, a condizione, tuttavia, che non si entri nel ruolo di vittima o in quello di giustiziere. L’aggressività, la violenza e la collera – che ci stremano e ci rendono così infelici – possono essere contrastate nel praticare la virtù contraria, cioè: la dolcezza e la pazienza. Giungeremo alla pacificazione e alla serenità del cuore, soltanto se perdoniamo e preghiamo per la persona che ci ha fatto soffrire. Questa dolcezza, che penetra in noi stessi, non sarebbe quel « coraggio senza violenza, quella forza senza durezza e quell’amore senza collera » di cui parla un noto filosofo francese, A. Comte-Sponville?

Non allontaniamoci mai dal santo amore di Dio, e custodiamo preziosamente in noi quella dolcezza di cuore che era così cara a nostro san Francesco di Sales. Nella corrispondenza con una religiosa della Visitazione, scriveva: «Siate buona col prossimo e, a dispetto degli scatti di collera che provate, pronunziate molto spesso queste divine parole del Salvatore: Signore, Padre eterno, io amo il prossimo perché lo ami tu, e tu me lo hai dato perché avessi in esso dei fratelli e delle sorelle, e tu vuoi che, come tu lo ami, così lo ami anch’io (1) ».


© Padre Gilles Jeanguenin  - Cf. Guarire le ferite dell’anima con san Francesco di Sales, Paoline Milano 2011, pp. 87-100.

martedì 3 dicembre 2013

TARDI T'AMAI (di Sant'Agostino d'Ippona)

Sant'Agostino d'Ippona
Tardi t’amai, bellezza così antica, così nuova,
tardi t’amai!
Ed ecco, tu eri dentro di me
ed io fuori di me ti cercavo e mi gettavo
deforme sulle belle forme della tua creazione…
Tu hai chiamato e gridato,
hai spezzato la mia sordità,
hai brillato e balenato,
hai dissipato la mia cecità,
hai sparso la tua fragranza
ed io respirai,
ed ora anelo verso di te;
ti ho gustata ed ora ho fame e sete,
mi hai toccato, ed io arsi
nel desiderio della tua pace

S. Agostino, Le Confessioni, X, 27

sabato 16 novembre 2013

IDEA DELL'OMOSESSUALITA' (di p. John F. Harvey, OSFS)

Idea dell'omosessualità
"Letteralmente, omosessuale significa “tendente sessualmente verso individui di uguale genere”, mentre il termine omosessualità indica “un’adattamento in età adulta caratterizzato dal comportamento sessuale fra membri adulti dello stesso sesso”. Mi preme sottolineare l’aggettivo adulta, che è di estrema importanza. Gran parte della retorica attuale non ammette il fatto che l’adolescenza è spesso accompagnata da una fase di confusione o ansia transitoria circa l’identità sessuale. “Mettere sullo stesso piano i fenomeni di omosessualità negli adolescenti e negli adulti significa creare una confusione fra categorie disparate così inopportuna da rendere praticamente impossibile un discorso sensato” (Barnhouse, Ruth T. 1977. Homosexuality; A Symbolic Confusion. New York: Seabury. 21-2).

È arrivato allora il momento di fare chiarezza sul termine omosessuale. Anziché di “persona omosessuale”, è molto meglio parlare di persona con attrazione per lo stesso sesso. Non si tratta di una distinzione meramente accademica: con la prima definizione, infatti, finiremmo implicitamente per considerare l'omosessualità la caratteristica predominante nei soggetti in questione, mentre riferendoci a uomini e donne con attrazione verso lo stesso sesso potremmo ragionare in un'ottica più ampia. Una persona, in fondo, è più che un insieme di inclinazioni sessuali e i ragionamenti sull’attrazione verso lo stesso sesso (che d’ora in avanti chiameremo ASS) si fanno più confusi se pensiamo agli “omosessuali” come a un genere a parte di esseri umani. “La persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio, non può essere definita in modo adeguato con un riduttivo riferimento solo al suo orientamento sessuale … Qualsiasi persona ha la stessa identità fondamentale: essere creatura e, per grazia, figlio di Dio, erede della vita eterna(Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla Cura Pastorale delle Persone Omosessuali, 1986, n. 16).

Eviterò pertanto i termini gay e lesbica, che fanno dell’ ASS il tratto principale di una persona. Detti termini appartengono a un’ideologia o un movimento socio-politico. Personalmente, ho deciso di evitare anche l’uso del termine “persona omosessuale”: anche in questo modo, infatti, si affibbierebbe al soggetto un'etichetta solo in base ad una tendenza sub-razionale.

L’ASS si riconosce subito da TRE SEGNI: (1) una tendenza erotica persistente verso individui dello stesso sesso [una temporanea attrazione è possibile, ma l’ASS e il termine omosessuale si riferiscono di solito ad un’attrazione duratura]; (2) un’indifferenza verso le persone dell’altro sesso quanto ad attrazione fisica [talvolta l’indifferenza si estende alla sfera psicologica]; (3) un disgusto per le relazioni con soggetti di sesso opposto

La prima caratteristica è riscontrabile in tutte le persone con ASS, mentre la seconda e la terza non si riscontrano ovunque. Da molti studi (compreso quello di Kinsey), infatti, sappiamo che vi sono persone che, pur essendo “eterosessuali”, hanno un interesse non provvisorio per le relazioni omosessuali e viceversa, vi sono persone con ASS che hanno avuto relazioni non transitorie con soggetti dell’altro sesso. Tenendo presente tutto questo, ci accorgeremo che in molti soggetti l’ASS non si manifesta in modo “standard”. Vi sono poi alcuni che, per il loro comportamento, sono stati classificati come “bisessuali”, essendo attratti verso entrambi i sessi. Non esiste una definizione scientifica della bisessualità; si tratta semplicemente della descrizione di un comportamento. Molti di coloro che si sposano avendo tendenze miste di questo tipo incontrano profonde difficoltà morali e psicologiche.

Fra gli adolescenti e le persone che vivono per lunghi periodi solo con persone dello stesso sesso (ad esempio, in prigione o sulle navi in alto mare), l’attività omosessuale e una ASS transitoria sono comuni. Di solito, comunque, gli adolescenti raggiungono la maturità psicologica e le persone sole ritornano a vivere in compagnia con un soggetto dell’altro sesso: così, attratti verso il sesso opposto, non hanno più la tentazione di compiere atti omosessuali. Pertanto, nessun adolescente può essere definito con certezza “omosessuale” – occorre attendere per vedere come si comporterà una volta diventato maturo.

Allo stesso modo, una persona che ha commesso uno o più atti omosessuali non deve pensare di non avere alcun orientamento eterosessuale. In sé, l’atto omosessuale non prova nulla. Tuttavia, chi è attratto, anche temporaneamente, verso gli atti omosessuali necessita di una solida guida morale e spirituale, e talvolta di un trattamento psicologico, se non vuole ingannarsi e farsi del male."

p. John F. Harvey, OSFS Attrazione per lo stesso sesso: magistero cattolico pratica pastorale

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lunedì 21 ottobre 2013

Un nuovo ceppo di HIV si sta diffondendo rapidamente in Russia (RIA Novosti)

Un nuovo ceppo di HIV  si sta diffondendo rapidamente in Russia (RIA Novosti)
MOSCA, 16 ottobre (RIA Novosti) - Un centro di ricerca scientifica in Siberia , ha dichiarato mercoledì che ha scoperto un nuovo ceppo del virus HIV in Russia e che il virus si sta diffondendo "a un ritmo rapido".
Il sottotipo, noto come 02_AG / A, è stato individuato nella città siberiana di Novosibirsk nel 2006 e ora rappresenta oltre il 50 per cento delle nuove infezioni da HIV nella regione.
La dichiarazione riferisce che il numero di persone sieropositive che vivono nella regione di Novosibirsk è balzato da circa 2.000 nel 2007 a 15.000 nel 2012, citando il Centro federale Russo per l’AIDS.
Il 02_AG / A potrebbe essere la forma più aggressiva del virus HIV in Russia, ha detto Natalya Gashnikova, capo del dipartimento per i retrovirus al centro statale di ricerca biotecnologica Vektor a Koltsovo, i cui specialisti hanno scoperto il ceppo.
Ha detto che il virus potrebbe diffondersi molto più velocemente dell'attuale ceppo di HIV dominante in Russia, sottotipo A (I).
Il nuovo ceppo non è limitato alla vasta area della Siberia. È stato rilevato nella repubblica russa meridionale della Cecenia, così come nelle ex repubbliche sovietiche del Kirghizistan e del Kazakistan.
HIV, un retrovirus che causa un lento decadimento del sistema immunitario, ha due tipi: HIV- 1 e HIV -2. Quest'ultimo è considerato meno aggressivo e trasmissibile.
Gli scienziati dicono che l'HIV -1 è il ceppo più comune e si divide in sottotipi sulla base di varie forme che sono raggruppate in regioni geografiche di tutto il mondo.
Secondo le Nazioni Unite, l'Europa orientale e l'Asia centrale sono le uniche regioni del mondo in cui l'infezione da HIV è chiaramente in aumento. Il cinquanta per cento delle persone sieropositive che vivono in tale area sono in Russia.
La malattia rimane poco compresa in Russia e, secondo gli esperti di Koltsovo, la ricerca sulla diffusione e le caratteristiche dei nuovi ceppi di HIV è finanziata in modo insufficiente.

domenica 20 ottobre 2013

Perché il mio anonimato personale pubblico? (di Alberto Gonzaga)

Anonimato personale pubblico
Ciao, il mio nome è Alberto e sono una persona con Attrazione per lo Stesso Sesso (ASS). Per recuperarmi da un comportamento autodistruttivo seguo un programma specifico all’interno di un gruppo di autoaiuto. Una delle regole del Gruppo recita: “L’anonimato è la base spirituale di tutte le nostre Tradizioni, che sempre ci ricorda di porre i principi al di sopra delle personalità” (Tradizione 12 di AA).

Il principio dell’anonimato personale (mio, non del Gruppo) pubblico (con i media, non con gli amici in recupero) ha un grande significato spirituale, la cui essenza è nello spirito di sacrificio che si pratica davvero con un’autentica umiltà.

L’essenza spirituale dell’anonimato è il sacrificio. Lo spirito della rinuncia ai miei desideri personali per un bene superiore, spalanca la porta alla fiducia. Quando cerco di mettere da parte il mio desiderio di distinguermi, sia tra i miei amici che davanti all'opinione pubblica, comprendo come l’anonimato sia umiltà in azione. Quando metto i princìpi al di sopra delle personalità, mi dispongo ad ascoltare ed accogliere effettivamente con “mente aperta” e superando i pregiudizi, le diverse esperienze che sono condivise nel Gruppo, a partire dalla mia. L'accettazione dell'esperienza spirituale mi consente di essere pienamente onesto con me stesso e con gli altri: il mostrare una maschera si rivela finalmente in tutta la sua inutilità.

Per quanto riguarda il desiderio di distinguermi (una forma di narcisismo spirituale) cerco di ricordarmi che io non sono meglio di nessun altro, sono un figlio di Dio, un peccatore emotivamente ferito come il fratello gay militante, l’omofobo di turno o l’amico in negazione che mi accusa rabbioso dei propri insuccessi. Ho avuto, a differenza loro, un esperienza spirituale per cui devo dimostrare la mia gratitudine custodendola e ridonandola a mia volta.

Se mantenere l’anonimato pubblico significa sacrificare il desiderio di potere, prestigio, denaro e sesso, l’aprirsi privatamente sul mio percorso mi aiuta nell’autoaccettazione e contribuisce a diffondere il messaggio. Ho ritenuto giusto farlo in piena libertà, quando mi sono sentito abbastanza stabile nella castità e solo quando opportuno, stando attento ad evitare il più possibile di alimentare la mia naturale tendenza al protagonismo ed al narcisismo.

Se a volte posso parlare di me stesso non lo faccio mai della storia personale degli altri, di cui non rivelo neanche il nome, rischierei un’irreparabile perdita di fiducia. Tanti, se non fossero sicuri che il loro anonimato venisse protetto, potrebbero esitare ad aprirsi su questioni che un sano equilibrio mentale ed il buon senso richiedono siano trattate con pudore e riservatezza.

Il mio anonimato è pubblico non privato, altrimenti renderei le relazioni troppo impersonali, quasi clandestine, certo do confidenza solo dopo un certo periodo di tempo ma so anche che probabilmente conosco chi condivide con me meglio e più a fondo dei suoi stessi famigliari.
Se non custodissi l’anonimato personale pubblico potrei dare scandalo a chi mi conosce e non sa del mio passato, coinvolgerei indirettamente amici e parenti in una dimensione pubblica passibile di controversie. Non ultimo, il nascondere il mio nome ed il mio volto, disincentiva chi - ancora - è in cerca di “compagnia” (come lo sono stato io prima d’intraprendere veramente il mio recupero).

Devo evitare di atteggiarmi in pubblico, non ho nulla da dimostrare o conferenze da tenere, posso solo testimoniare della mia esperienza personale ed il modo più proficuo per farlo è difronte ai miei simili in un contesto riservato che custodisca con cura ciò che appartiene alla sfera privata: il Gruppo.

Non intendo trasformarmi in un fenomeno da baraccone o in una compagnia di varietà, tanto per attirare i curiosi e magari trarne qualche vantaggio materiale, come certi “veggenti” di santi e madonne che pretendono di dare lezioni di moralità. La mia esperienza personale non vuole e non può avere nulla di paradigmatico, può tuttavia suscitare un interrogativo nell’animo di chi si trova a vivere una condizione simile. Se mi proponessi come modello, una ricaduta, fatto abbastanza comune per chiunque, potrebbe costituire un danno irreparabile per molti; lo stesso se ne approfittassi per scopi personali. Anche per questo ritengo imprescindibile un anonimato personale pubblico assoluto con ogni mezzo di comunicazione (specialmente internet).

È d’altronde fondamentale una comunicazione efficace per trasmettere il messaggio di speranza e cambiamento a quante più persone possibile, costrette a lottare da sole con l’Attrazione per lo Stesso Sesso. Il dono che ho ricevuto è di natura tale che non posso conservarlo senza a mia volta trasmetterlo così come mi è stato consegnato, gratuitamente. La comunicazione deve essere fatta in modo disinteressato e con spirito di sacrificio, rinunciando ad ogni forma di vantaggio personale, anche lecito. Se usata male la comunicazione può nonostante le migliori intenzioni, stritolare chi vi è impegnato, rinfocolando le pretese dell’ego. Devo evitare ogni forma di pubblicità personale e come il servo inutile non cercare nulla per me. Non c’è nessun successo per me, perché è una Realtà più grande di me che fa le cose, nonostante la mia imperfezione e per mezzo di essa.

L’anonimato mi protegge da me stesso, dal mondo e da nemici che non sono di carne: “Questo per far sì che le nostre grandi benedizioni non possano mai viziarci, e che possiamo vivere per sempre nella grata contemplazione di Colui che governa tutti noi”. (Dodici Passi Dodici Tradizioni)

“Nel momento in cui mettiamo da parte queste aspirazioni, peraltro molto umane, crediamo che ognuno di noi partecipi alla tessitura di un manto protettivo che copre la nostra intera associazione e sotto il quale possiamo crescere e lavorare tutti uniti.” (Come la vede Bill)


PS: per chi non fosse ancora convinto, non sono un personaggio dello spettacolo...

sabato 19 ottobre 2013

La Chiesa non può tacere la verità (di san Giovanni Paolo II)

San Giovanni Paolo II e p. John F. Harvey, OSFS
La Chiesa non può tacere la verità, perché verrebbe meno alla fedeltà verso Dio Creatore e non aiuterebbe a discernere ciò che è bene da ciò che è male.
Vorrei, a tale riguardo, limitarmi a leggere quanto dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale, dopo avere rilevato che gli atti di omosessualità sono contrari alla legge naturale, così si esprime: "Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione" (CCC 2358).

GIOVANNI PAOLO II - ANGELUS Domenica 9 luglio 2000

domenica 13 ottobre 2013

IDEA DELL'AMICIZIA (di p. John F. Harvey, OSFS)

Davide e Gionata: modello di amicizia cristiana
"Come Sant'Agostino scoprì per mezzo di un’amara esperienza, Dio deve essere presente nelle amicizie umane, o queste non conterranno alcuna vera felicità. Questo principio generale conduce a diverse conclusioni pratiche, sempre valide:

(1) una vera amicizia non esiste, a meno che Dio sia il legame di unione tra gli amici; 


(2) l'amore per un amico che non riesce a comprendere i suoi limiti umani rende schiava l'anima e la espone ad una sofferenza sconvolgente; 


(3) la soluzione della questione dell’amicizia umana risiede nell'integrazione dell'amore dell'uomo con l'amore di Dio. Lungi dal contrapporre amicizia umana e divina, ci si rende conto che tutto ciò che è bello nella propria amicizia è un dono divino. Pertanto, si dovrebbe esortare l'amico ad amare Dio ".

p. John F. Harvey, OSFS Teologia Morale delle Confessioni di S. Agostino, Catholic University of America Press, 1951


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IDEA DELLA CASTITA' (di p. John F. Harvey, OSFS)

bisogno di toccare ed essere toccati

In genere le persone - non solo quelle con ASS - hanno un'idea decisamente negativa della castità. Ai più, sembra una virtù severa che condanna, tra le altre cose, ogni tipo di contatto fisico. La vera castità invece consiste nel modo corretto di esprimere il nostro affetto. Vivere in castità vuol dire “sapere armonizzare affetti e piaceri sessuali nella persona, svolgendo una sapiente ed amorevole opera di dominio dei desideri e degli impulsi sessuali, col bisogno di toccare ed essere toccati” (May, William E. 1976. The Nature and Meaning of Chastity. Chicago: Franciscan Herald Press Synthesis Series. 36).

Essendo creature fatte in un certo modo, abbiamo spesso bisogno di esprimere le emozioni con parole o gesti. Di qui l'importanza del contatto fisico. Alcuni tipi di contatto sono, per natura, riservati alle persone sposate, altri invece sono accettabili e appropriati per esprimere forme di affetto e amicizia, il che vale sia per i soggetti con tendenze omosessuali che per gli eterosessuali.

Si menziona sempre il matrimonio e i suoi contatti fisici. Per molti, si tratta della forma di amicizia umana più intima. Ma esistono amicizie estremamente ricche e profonde fra soggetti non sposati, nonché fra sposati e amici che non siano loro coniugi. Sono forme di amicizia solide, sane, caste e decisamente auspicabili. Amicizie di questo tipo rappresentano la forma di sostegno migliore per le persone in via di maturazione, in quanto trasmettono affetto e un senso di autostima. Sono possibili per ogni individuo, a prescindere da quale sia l'attrazione sessuale predominante. L’esigenza di buone amicizie è soprattutto vera per i soggetti con ASS: spesso, infatti, molte delle loro sofferenze e difficoltà derivano dalla mancanza di amici stabili.

p. John F. Harvey, OSFS Attrazione per lo stesso sesso: magistero cattolico pratica pastorale


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venerdì 20 settembre 2013

QUATTRO ANNI!

Un percorso di condivisione per superare l'omosessualità
21 settembre 2013


Cari amici,
eccomi a scrivere per celebrare la grazia del quarto anno del mio percorso oltre i confini dell’identità omosessuale verso una più completa unione in Cristo, attraverso lo sviluppo di una vita interiore di castità.

Come sembra essere ormai consuetudine, vorrei cogliere l’opportunità per ringraziare Dio e tutti coloro in cui Egli mi si è voluto manifestare lungo questo cammino, rendendo testimonianza della trasformazione che sta operando in me la grazia.

La ferita interiore che mi accompagna dall’infanzia è stata l’occasione perché col tempo cercassi di soddisfare il mio naturale bisogno di affetto in maniera sempre più inautentica, offrendo agli “altri” una falsa immagine di quello che in realtà io sono. Il mio comportamento omosessuale, sebbene in una prima fase e ancora successivamente a tratti mi abbia mostrato un’ingannevole parvenza di felicità, mi ha condotto progressivamente verso un’alienazione sempre maggiore da me stesso e dalla realtà. Il senso di profonda frustrazione che ne è scaturito ha solo acuito i meccanismi di difesa (rimozione, negazione, dissociazione, idealizzazione ed intellettualizzazione…) che mi separavano da un “io” inaccettabile e dal mondo, in un modo sempre meno socialmente funzionale.

Il processo di autodistruzione – ma forse nel contesto mentale che mi sono trovato a vivere sarebbe più corretto parlare di profanazione – ha coinvolto la mia persona sul piano fisico, morale e psicologico. In questo stato sono giunto a fare il male che non voglio. Spettatore impotente dell’abuso di me stesso, ho finito per trovarmi paradossalmente faccia a faccia col mostro che avevo cercato di sfuggire per una vita.

Quattro anni fa prendevo la risoluzione di questo mio tentativo di cambiamento. – e qui il pronome possessivo sta ad indicare come ritenessi di poter trovare in me e solo in me, al di là delle belle dichiarazioni di principio, la forza e la fiducia per venir fuori da questa brutta situazione. Ce l’avrei fatta anche questa volta, non mi ero forse imposto mille volte sul mondo grazie alla mia forza di volontà ed alle mie capacità? Una decisione imperfetta, ma era il meglio che potessi fare in quelle condizioni.

Ma da dove cominciare? Un sacerdote anni prima mi aveva dato un opuscolo sulla questione omosessuale che riportava una serie di riferimenti. Scrissi a tutti, ricevetti poche risposte, feci un seminario. Non incontrai le persone giuste, ora lo so, ma lì per lì mi aggrappai a quello che mi si parava davanti, come farebbe qualcuno che sta per affogare. Un approccio sbagliato (finalizzato in modo prioritario al cambiamento di orientamento sessuale) finì solo per spingermi verso un processo ulteriormente involutivo ed ingannevole che con la repressione favoriva lo sviluppo di un falso sé.

Puntellare un fianco di un edificio instabile significa far collassare la parete opposta, ed è quello che accadde.

Solo, in una nuova città, avevo ripreso a vivere la notte, abusavo di alcol e psicofarmaci, trascuravo il lavoro, meditavo un altro tentativo di suicidio.

In piena crisi mi si manifestò quella che io considero, perdonatemi l’espressione un po’ enfatica, la mano di Dio. Entrai, direi per caso se solo non sapessi che il caso non esiste ed è la Provvidenza a guidare tutto ciò che mi accade, a far parte di un gruppo di autoaiuto dei 12 passi: quel giorno è cominciata la mia resa difronte alla mia impotenza.

Mi sono soffermato su questa fase del mio percorso di recupero perché la realtà non appare in tutta la sua evidenza nei miei precedenti messaggi annuali, che restano con le loro reticenze, inesattezze e goffe puerilità testimoni fedeli di quanto si stia rinnovando il mio modo di pensare per lasciarmi trasformare (Rm 12,2).

Ma oggi chi sono, a quasi mille giorni da quell’incontro provvidenziale che mi ha salvato e trasformato la vita?

Mi definirei una persona che s’interroga sul senso della propria condizione omosessuale alla luce della Fede in un Dio che ha predicato anche la castità come parte integrante del Suo progetto d’amore, per vedere l’uomo pienamente realizzato.

L'Apostolato Courage
Cosa è successo in quest’anno, al di là dell’astinenza dai rapporti omosessuali, e che cos’è cambiato o sta cambiando in me perché senta il bisogno di condividerlo con voi?
Ho continuato a frequentare un gruppo di autoaiuto spirituale specifico per superare la condizione omosessuale, si tratta dell’Apostolato Courage, un’iniziativa ecclesiale nata negli Stati Uniti più di trent’anni fa e che in questo momento si sta diffondendo in tutto il mondo. Al gruppo ed a ciascuno dei suoi membri sono debitore per l’amicizia, la motivazione e la vicinanza anche nei momenti più difficili. La frequenza del gruppo nel favorire un percorso di autocoscienza ed introspezione del mio cammino alla luce della Fede ha facilitato molto l’opera sia del mio direttore spirituale che del mio psicoteraputa.
Mi sono impegnato nel volontariato con persone con disabilità mentali e fisiche, a loro debbo l’avermi permesso di comprendere il vero significato della dignità umana. Questo mi ha aiutato molto ad accettarmi e ristabilire un contatto con la realtà, consentendomi così di superare le paure che m’impedivano di uscire da me per andare verso l’altro.
Ho terminato un ciclo di 50 sedute di psicoterapia, cui debbo il superamento di una buona dose della mia ansia ed una maggiore onestà difronte a me stesso.

Col mio direttore spirituale, che per la pazienza e la disponibilità meriterebbe di essere canonizzato, ho lavorato molto sull’uso delle contraddizioni come strumento per progredire nella vita spirituale, sulle aspettative (le chiama scherzosamente rancori premeditati), sulla rabbia, sul bisogno di vedere Cristo negli altri e di essere Cristo per gli altri, sull’umiltà che si concretizza praticamente nell’obbedienza a Cristo e alla Sua Chiesa e nell’accettazione dei miei limiti. In particolare mi ha indirizzato verso una continua disciplina (custodia) dei sensi come prerequisito necessario per la vita spirituale, una resa senza condizioni ed un affidamento totale a Dio

Dopo un breve periodo di pausa ho ricominciato progressivamente a lavorare, questo mi ha aiutato ulteriormente nel recupero del rapporto con la realtà, mi ha dato una maggior regolarità di vita e nuove occasioni di socializzazione.

Cosa è cambiato o sta cambiando nel mio modo di comportarmi, nelle mie emozioni e nel mio pensiero?

Vivo una vita appagante grazie alla Fede in Dio, ho cambiato radicalmente atteggiamento e alla ricerca del piacere, dell’apprezzamento altrui e della sicurezza materiale antepongo rispettivamente, la gioia, il sentirmi amato da Dio e la serenità che mi da l’abbandono alla Sua provvidenza.

Per certi versi il cambiamento più evidente è il distacco dalla cultura omosessuale, non l’atteggiamento sociopolitico gay che non ho mai apprezzato, pur essendo un ex tesserato Arcigay, ma la cultura "alta" dell’omoerotismo di un Proust o di un Visconti che ostentavo quasi come un lasciapassare per la mia ambiguità sessuale.

Uno dei frutti del dominio di sé consiste nella pressoché totale mancanza di eccitazione sessuale per immagini e situazioni che precedentemente mi provocavano una reazione per lo più immediata e fuori controllo. Non erotizzo i rapporti con persone dello stesso sesso ed ho uno sguardo autoironico e di intima compunzione verso quelli che fino a non molto tempo fa rappresentavano i miei ossessivi target sessuali. Frustrazione, ansia, collera, autocommiserazione e depressione costituivano il sintomo di un rapporto inautentico con me stesso, con gli altri e con Dio. Oggi sono sereno.

Nel percorso di recupero si dice solitamente progresso non perfezione. La guarigione di questa ferita è graduale e non avviene, tuttavia, senza lasciare una cicatrice. È lungo il cammino della purificazione della memoria.

Continua la mia lotta quotidiana, una lotta a tratti dura che mi rammenta di non essere autosufficiente, di dover ricorrere continuamente a Dio e che costituisce l’occasione per rinnovare la resa difronte alla mia impotenza (senza Dio sono senza forza, sono senza significato).

A volte tornano anche le tentazioni di comportamenti manipolatori ed abusivi, e con questi la necessità di porre un limite a me e agli altri; il riproporsi delle immagini pornografiche come un cibo maldigerito, la rabbia ed il senso di frustrazione, la tendenza a rincorrere pensieri ossessivi, momenti di disagio nel confronto sociale ed una certa tendenza dissociativa. I pensieri intrusivi di violenza possono essere “faticosi”, mi occorre distacco e spirito di affidamento. So di non esserne responsabile ma vorrei che finissero, desidero il silenzio. È umano.

Non accetto il dialogo con le immagini, ma contemporaneamente cerco di leggere le mie emozioni, avendo cura di non reprimerle, per evitare che il fantasma dell’abuso continui a dominare inconsciamente la mia vita ed i miei rapporti con gli altri.

Tutto questo è nulla rispetto alla giostra di un’emotività fuori controllo, come quella che ho vissuto per anni.

Sono riflessioni che potrebbero indurmi un senso di frustrazione se non mi riconoscessi un diritto all’imperfezione. Accetto l’idea che ognuno è perfetto a modo suo e trova il proprio adattamento funzionale. La serenità in questo caso per me consiste nella percezione del limite, nel non incastrarmi in una resistenza inutile, non sono i miei espedienti (i vecchi meccanismi difensivi) che mi aiuteranno a vincere questa battaglia ma l’affidamento senza riserve a chi l’ha già vinta ed ha meritato la vittoria per me, Lui il solo Giusto, il Misericordioso.

Mi piace ricordare a tal proposito una felice espressione del papa della mia gioventù:

"Sforzatevi di accettare con sguardo soprannaturale i dolori e le limitazioni della vostra vita, che tanto valore hanno per la Chiesa; così, uniti alle sofferenze di Cristo, partecipate alla sua opera redentrice del mondo." GPII (1983)

Quest’agonia sulla croce è un invito alla lotta (Lc 13,24), e “non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole” (2 Tm 2,51) quindi devo combattere “la buona battaglia con fede e buona coscienza” (1Tm 1,18). In questa vita non avrò una libertà completa dalla concupiscenza –l’inclinazione al male– ma questa viene lasciata in me perché la fede non è una condizione acquisita una volta per tutte ma piuttosto una realtà dinamica che è tale solo se, un giorno alla volta, opera “per mezzo della carità” (Gal 5,6 ), è sostenuta dalla speranza e fondata nella fede della Chiesa.
Sono nelle mani del Signore,
Lui si prende cura di me e non mi abbandona mai
Un aspirazione alta, troppo alta, impossibile per me solo. Ma è proprio questa mia inadeguatezza difronte alla legge che ricorda al mio orgoglio sempre risorgente di dovermi mostrare bisognoso per ricevere la grazia di Gesù Cristo. La coscienza della mia non autosufficienza, del fatto che il solo Giusto è Lui e che io non posso meritare se non per mezzo Suo la salvezza mi deve spingere a rispecchiare nel mio comportamento verso gli altri fratelli peccatori e verso i nemici quel cuore chino sulla mia di miseria.



Così e solo così il giogo diviene leggero e posso ripetere: sono nelle mani del Signore, Lui si prende cura di me e non mi abbandona mai.

domenica 15 settembre 2013

NON CONTRO NEMICI DI CARNE. Per una visione soprannaturale della questione omosessuale (di Alberto Gonzaga)

“Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Rm 12, 1-2

Chiesa cattolica ed Omosessualità
Questo mio atteggiamento – l’aver abbracciato la via della castità – mi ha portato col tempo ad interrogarmi con insistenza ed in modo nuovo sulla mia condizione omosessuale.
Per comprenderla, ritengo occorra aprirsi ad una visione soprannaturale e sottomettere la ragione umana ad un modo di pensare trascendente. Con lo sguardo soprannaturale, che soltanto la Fede può offrire, si possono cogliere cose che con lo sguardo naturalistico paiono semplicemente assurde. Da qui credo dipenda la frequente disparità di opinioni, anche in ambito cattolico. Vorrei quindi proporre, pensando secondo Dio e non essere di scandalo pensando secondo gli uomini (Mt 16,23), una serie di affermazioni in forma negativa che rappresentano il percorso della mia crescita, come in una scala, che mi ha visto prima abbracciare e progressivamente rigettare come insufficienti e contraddittorie prima l’una, poi l’altra tesi nel tentativo di definire l’essenza ed il significato della questione omosessuale:

Non è una questione biologica ed immutabile, non v’è alcuna evidenza scientifica che un’eventuale predisposizione genetica sia causa necessaria dello svilupparsi di un’attrazione omosessuale, basti pensare al caso dei gemelli. Lo stesso Alfred Kinsey riteneva possibile un cambiamento radicale di orientamento sessuale.

Non è una questione sessuale, è falsa ed artificiosa la dicotomia eterosessuali/omosessuali. La visione corretta della sessualità parla di una sessualità procreativa o meno, il piacere resta in secondo piano come effetto collaterale e mai come fine. “La Chiesa … rifiuta di considerare la persona puramente come un «eterosessuale» o un «omosessuale» e sottolinea che ognuno ha la stessa identità fondamentale: essere creatura e, per grazia, figlio di Dio, erede della vita eterna”. I termini vennero introdotti al grande pubblico da Krafft-Ebing (Psychopathia sexualis 1886) e connotano entrambi perversioni edonistiche, per la cronaca il testo finì all’Indice dei libri proibiti.

Non è una questione politica. I toni sopra le righe del violento dibattito che oppone le parti in lotta induce a semplificare ed approssimare su di un tema articolato che richiederebbe invece serenità e spirito di carità per essere compreso nella sua complessità e poter fare veramente il bene degli interessati. I cattolici militanti non dovrebbero mai dimenticare di vedere Cristo negli altri e di essere Cristo per gli altri. In particolar modo sconsiglio a chi s’interroga con sincerità sulla propria condizione omosessuale d’impegnarsi in queste battaglie. Cristo dalla croce mi chiede di cambiare me stesso (autoplastia) non il mondo – l’alloplastia può essere un meccanismo difensivo nevrotico.

Non è una questione culturale. Le discussioni sull’ideologia gender, sul pensiero di una Judith Butler o dell’importanza seminale della scuola di Francoforte, dimenticando magari un Mieli (che non era solo un coprofago), rischiano di essere intellettualismi da salotto lontani dalla realtà in cui la vera cultura diffusa è quella di una sessualità “liquida”, per dirla con Zygmunt Bauman, incarnata nella quotidiana sofferenza delle persone. Siamo tutti indifferentemente immersi in un clima di disperante edonismo. Pertanto non sarà la conferenza di un accademico titolato ad aiutare veramente le persone (si tratta forse di un risorgente gnosticismo?).

L'omosessualità non è una malattia
Non è una malattia. È un’affermazione scientificamente infondata ed umiliante che costituisce il presupposto logico per la deresponsabilizzazione degli atti. Anche chi afferma che l’omosessualità sia una dipendenza cade in quest’errore, in quanto implica un comportamento patologico. Questa convinzione erronea può costituire una comoda scappatoia per quei sacerdoti che, probabilmente a disagio essi stessi con la propria sessualità, rifiutano alle persone omosessuali la cura pastorale specializzata cui essi hanno diritto, secondo il magistero, rinviandoli alla pastorale ordinaria (ecco un’altra forma di negazione) o, se proprio insistono in questa pretesa, da un medico! Questo però non significa che una persona non possa scegliere liberamente per il proprio bene oggettivo di sottoporsi ad una terapia psicologica.

Non è un peccato, in quanto inclinazione non voluta e quindi non imputabile alla persona. L’inclinazione in sé resta tuttavia intrinsecamente disordinata (orientata ad un comportamento che è sempre male) e quindi è non solo lecito ma naturale e doveroso desiderare ed adoperarsi per superarla, come lo è per ogni inclinazione al male.
Altro discorso per la tendenza omosessuale vissuta con orgoglio ed alimentata volontariamente e coscientemente con un comportamento omosessuale, frequentazioni, cultura etc., che normalmente non è incolpevole. Gli atti in sé sono sempre considerati negativamente (intrinsecamente disordinati). Occorre quindi superare quel falso senso di vergogna che può avvolgere chi “cerca il Signore e ha buona volontà”.

Non è una questione di forza di volontà ma di buona volontà, altrimenti cadremmo nel pelagianesimo. Buona volontà significa evitare che la concupiscenza carnale impedisca all’azione dello Spirito Santo di trasformarci. La trasformazione non è ovviamente da intendersi in prima istanza come diventare etero quanto piuttosto conformarsi alla volontà di Dio crescendo nella virtù. Quindi non sarà un difetto di volontà quello per cui si continuano a sperimentare attrazioni omosessuali.

"Matrimonio" gay?
Non è una questione di gay o ex-gay. Occorre fare attenzione ad evitare un gratuito esercizio narcisistico, una sorta di pornografia emotiva che non dice nulla a chi s’interroga sulla propria condizione, rischia di scadere nel ridicolo, nella millanteria di un asserito passato militante e nel paradosso di appoggiarsi ad organizzazioni di estrema destra, pur di avere la tanto agognata visibilità. I toni, spesso violenti, non favoriscono certamente la comunicazione con chi s’interroga sulla propria condizione ma si rivolgono – in cerca di approvazione – ad un più vasto pubblico. Queste “testimonianze”, a volte di una stucchevole teatralità, offrono un’immagine a tratti parodistica del mondo omosessuale, facendo leva su di un sensazionalismo scandalistico che impedisce di comprenderne la complessità della realtà e fa sentire ancora più isolato chi non ha scelto la promiscuità. Potrebbe trattarsi di un processo di evitamento che fa leva su di un senso di falsa vergogna, un timore di rifiuto/violenza, la paura di farsi dare del “frocio”, ovvero una profonda mancanza di autoaccettazione che finisce per rafforzare i meccanismi di difesa impedendo di entrare in contatto con il vero sé. Un’inversione in termini ma non nella sostanza dell’atteggiamento gay militante.

Non è una questione di matrimonio (quello originale, tra un uomo ed una donna), esorcismi o miracoli. La storia ed i gruppi di autoaiuto sono pieni di uomini sposati in cui convivono un’inclinazione omosessuale ed un comportamento eterosessuale, anzi il matrimonio potrebbe essere una forma di repressione nevrotica che in genere finisce per esplodere in un comportamento fuori controllo. Inoltre l’esaltazione del matrimonio come bene supremo, preferibile addirittura al celibato, è contraria alla rivelazione (chi si sposa fa bene, ma chi non si sposa fa meglio” l Cor 7,38), rischia di idealizzare questa condizione nascondendone le difficoltà che le sono proprie e paradossalmente mortifica chi vive il celibato. Non abbiamo bisogno di ipotizzare una possessione diabolica per qualcosa che è normalmente spiegabile con la concupiscenza derivata dal peccato originale ed occasionata da una ferita interiore. Attendere una soluzione miracolosa – che si realizza solo in via straordinaria – può essere un meccanismo inconscio per evitare i mezzi ordinari e la responsabilità dei propri atti.

La casa del Mulino Bianco arcobaleno
Non è una questione di “matrimonio gay”, gaymonio o unione civile di persone dello stesso sesso o di leggi su di una indefinita “omofobia”. Gli eterosolidali potrebbero vedere in questo l’occasione per un ulteriore legittimazione dei propri comportamenti sessuali improntati ad un edonismo deresponsabilizzato. I partiti (dei non omosessuali) strumentalizzano le persone omosessuali per portare a compimento la loro rivoluzione antropologica. Le associazioni gay usano queste battaglie per giustificare la propria esistenza. Chi s’identifica come gay ha altre priorità e spesso pensa al matrimonio più come ad un ideale “casa del Mulino Bianco arcobaleno” cui aspirare che non ad una prospettiva concreta. Chi s’interroga sulla propria condizione rivolge lo sguardo al proprio scenario interiore ed ha altro a cui pensare. Un discorso a parte – e ben più approfondito – meriterebbe l’ “omofobia” che, fatta astrazione da alcuni riprovevoli atti di violenza nei confronti delle persone più visibili, si concretizza anche in atteggiamenti da molti di noi percepiti in modo soggettivo come forme di rifiuto ed emarginazione– ma non per questo meno veri. Credo tuttavia che il nocciolo della questione sia costituito dal diffuso atteggiamento di rifiuto di sé delle persone omosessuali, che hanno paura di se stesse (non significa forse proprio questo omo-fobia) e praticano forme di autentica violenza nei confronti dei propri inaccettabili simili da cui vorrebbero vedere liberato il mondo, pur di non rischiare di rispecchiarvisi.

Tutti le precedenti affermazioni, proposte in forma affermativa, possono contenere dei parziali elementi di verità, ed è questo che le rende così ingannevoli. Se però vengono considerate in termini assoluti conducono ad una visione aberrata della realtà, che ignorando l’essenza stessa della questione porta in sé, almeno implicitamente, i presupposti per contraddire l’insegnamento della Chiesa in materia. Il problema di fondo è la mancanza di una prospettiva di fede soprannaturale.

Ma allora di cosa si tratta?
L'omosessualità come occasione di santificazione
È una questione morale e spirituale. Sull’aspetto morale rinvio a quanto detto a proposito del peccato, ribadendo la necessità della distinzione tra inclinazione e comportamento, che possono non convivere nello stesso soggetto e quella di una valutazione caso per caso in ordine alla responsabilità soggettiva della persona.
Dal punto di vista spirituale la questione assume un aspetto più intrigante e meno tecnico. Che senso ha questa inclinazione all’interno dell’economia della salvezza della mia anima, ovvero del piano provvidenziale di Dio nei miei confronti? Si tratta forse di un brutto scherzo? Dio si vuole prendere gioco di me? No, non è evidentemente questo.

Quel Dio che mi amato di un amore personale, speciale ed incondizionato fino a morire in croce per me, ha permesso che fossi spezzato (la mia ferita) per poter essere offerto a Sua immagine. Riscattandomi dal peccato originale e dandomi la grazia necessaria per vivere nella pienezza la mia esistenza, ha lasciato in me un dono particolare perché lo accompagnassi lungo la via sacra del calvario. Con questo non voglio dire che si tratti di una benedizione, almeno non più di quanto lo sia ogni croce per ciascun cristiano, ma ritengo che il Signore ci abbia riservato questa prova come una via particolare alla santità. Solo nell’accettazione della propria condizione alla luce della Fede, che in parole concrete è l’adesione all’insegnamento della Chiesa, si spalanca la porta per l’azione della grazia nella nostra anima, è solo nel momento in cui mi riconosco peccatore, insufficiente, mancante, bisognoso di aiuto e incapace da solo del bene, che mi apro all’azione esterna dello Spirito Santo e l’impossibile diventa realtà.
La via della castità non è una virtù negativa, non mi basta astenermi da un qualche comportamento per conseguirla. Non è un ripiegamento su me stesso per negarmi agli altri. Per dirla con p. John Harvey, il fondatore dell’Apostolato Courage, “la castità è un profondo amore per Cristo espresso nell’amore per gli altri”.


Solo così questo talento di sofferenza si trasforma in occasione fruttuosa di autocoscienza e comprensione della misericordia, il giogo diviene leggero, la gioia mi accompagna e mi si rivela la pace del Signore, quella che il mondo non da, ma che non può neanche togliermi.

domenica 25 agosto 2013

"La voluttà fu data al verme e l'angelo sta di fronte a Dio"

Ripescando nel profondo della memoria riemergono i versi dell'ode an die freude di Friedrich Schiller che segnano anche l'inizio di un noto brano dei Fratelli Karamazov che già in passato mi si era proposto alla riflessione. Per uno strano incrocio di coincidenze letterarie questo stesso brano che mi aveva costretto ad interrogarmi sul senso del concetto di "bellezza" in Dostoevskij mi si riproponeva nell'incipit delle Confessioni di una maschera di Mishima Yukio. Romanzo a tematica autobiografica ed omosessuale  di un autore folle e perverso del Giappone contemporaneo, ma con un piede ben piantato nel decadentismo europeo.

Leggiamo:

"La voluttà fu data al verme. Ecco fratello, io sono uno di questi vermi e proprio per me furono dette quelle parole. Tutti noi Karamazov siamo così, anche in te che sei un angelo vive questo verme, e scatena nel tuo sangue le bufere. Sì, le bufere, perché la lussuria è una bufera, è peggio di una bufera! La bellezza è una cosa terribile e paurosa. Paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono. Io, fratello, sono molto ignorante, ma ho pensato molto a queste cose. Quanti misteri! Troppi enigmi sulla terra opprimono l’uomo.
Scioglili, se puoi, e torna salvo alla riva. La bellezza! Io non posso sopportare che un uomo, magari di cuore nobilissimo e di mente elevata, cominci con l’ideale della Madonna e finisca con l’ideale di Sodoma. Ancora più terribile è quando uno ha già nel suo cuore l’ideale di Sodoma e tuttavia non rinnega nemmeno l’ideale della Madonna, anzi, il suo cuore brucia per questo ideale, e brucia davvero, sinceramente, come negli anni innocenti della giovinezza. No, l’animo umano è immenso, fin troppo, io lo rimpicciolirei. Chi lo sa con precisione che cos’è? Lo sa il diavolo, ecco! Quello che alla mente sembra un’infamia, per il cuore, invece è tutta bellezza. Ma c’è forse bellezza nell’ideale di Sodoma? Credimi, proprio nell’ideale di Sodoma la trova l’enorme maggioranza degli uomini! Lo conoscevi questo segreto, o no? La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. E' qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini. Già, la lingua batte dove il dente duole."

(da “I fratelli Karamazov” – libro III – “i lussuriosi” di F.Dostoevskij)

Cosa non può sopportare D.? La contraddizione terribile che sperimentiamo ogni giorno in noi stessi, creati per l'infinito eppure soggetti alla schiavitù del peccato.

La bellezza è il sacrificio ovvero quel morire per l'altro che ci divinizza (ci rende simili per quanto possibile a Dio); ma che può pervertirsi nell'uomo a causa del peccato fino a divenire desiderio di autodistruzione, profanazione del proprio corpo e di quello altrui, compiacimento nella sofferenza morale e fisica.

L'amore è un mistero, una realtà potentissima che può significare la vita come la morte per un essere umano, in entrambi i casi risponde ad un bisogno profondo di uscire da sé, penso che questa sia la chiave che restituisce coerenza al quadro.

Nella risposta congruente o ingannevole a questo bisogno trova forse spiegazione lo straordinario potenziale spirituale delle persone con  attrazioni omosessuali che decidono di percorrere la via della castità. Il patrimonio di sofferenze, il senso d'inadeguatezza e l'alienazione profonda rispetto alla concretezza del reale ne fanno dei radicali con una naturale vocazione per l'assoluto. Se posso dire di aver incontrato Cristo questo è certamente accaduto negli occhi di fratelli e sorelle che s'interrogavano con onestà e stupore difronte al senso profondo di questa nostra peculiare condizione.